Questa è la traduzione letterale del brano di Euripide: “Zeus, odi tu come sono respinto, quali oltraggi patisco da questa abominevole donna, da questa leonessa che uccide i suoi figli? E invoco gli dèi e li chiamo a testimoni che, tu, donna, tu che li uccidesti, mi impedisci di toccarli, con le mie mani e di seppellirne i cadaveri”. Euripide, Medea. Trad. it. di Manara Valgimigli, Rizzoli, Milano 1982. (N.d.T.)
L’Autore si riferisce a quelle composizioni che basano la loro ritmica sull’imitazione delle macchine industriali; questo effetto fu usato da Prokofiev e da altri autori suoi contemporanei. N.d.T.)
La direttrice dell’osservatorio, Shoko Satiru, terminò il suo lavoro quotidiano. In quel momento l’orologio vibrò delicatamente. Erano le 21.00. Uscì dalla tuta e ricordò che presto sarebbe arrivato Pedro. Erano due anni che tutti i martedì ripeteva la stessa cerimonia: conclusa la regolazione del radiotelescopio buttava via la sua pelle gialla brillante; riordinava i capelli e confrontava le sue fattezze asiatiche con quelle della fotografia che aveva messo in un angolo dello specchio. Tutte le volte rimaneva ad ammirare quel volto azteco che somigliava al suo. L’immagine della Cacciatrice, come l’avevano chiamata gli archeologi, era stata scolpita nella pietra dura settecento anni prima. La figura, di profilo, teneva in mano un oggetto rettangolare da cui usciva una sbarra molto sottile che gli studiosi avevano identificato con un punteruolo da caccia. Per il resto, nessuno aveva saputo dare interpretazioni valide del suo strano abito o dell’acconciatura che poteva essere l’antico diadema di piume azteco, ma che all’occhio ignorante appariva come il semplice ondeggiare di capelli mossi dal vento. Nel parco archeologico aveva conosciuto Pedro che le aveva donato una fotografia della Cacciatrice, mormorandole molto lentamente: “Adesso so chi sei”, e quella frase aveva fatto da premessa ad una bellissima relazione. Shoko si preparava ancora una volta ad andare al villaggio insieme a lui. Tra pochissimo avrebbe sentito il rumore della macchina sui sassi, mentre voltava per l’ultimo pendio che dava sul piazzale dell’osservatorio. Pedro sarebbe arrivato fino all’entrata e il personale di guardia lo avrebbe osservato attraverso il sistema a circuito chiuso; si sarebbero scambiati qualche parola e in poco tempo sarebbero stati insieme laggiù in basso, in una notte calda e stellata. Ma questa volta il rituale del martedì era stato infranto. Pedro, senza presentarsi nel visore, era salito fino alla cupola. Le lastre metalliche si erano scostate ed era entrato in fretta.
Solo quando furono entrati nella villetta cominciarono a parlare.
Verso il 1300 la zona di Tlapán era un punto importante dell’impero azteco. Lì si conservava il libro dipinto che raccontava la lunga storia del viaggio attraverso l’oscurità di coloro che erano giunti ed avevano formato il popolo originario. Su un monte della zona era sceso il dio Quetzalcoatl e da lí si era mosso per raggiungere diverse parti della Terra. Ancora lì aveva insegnato per un certo tempo tutto-quello-che-c’è. Ma un giorno, all’alba, erano venuti a prenderlo altri dèi, montati su un enorme serpente piumato. Prima di partire con loro lasciò in regalo la nave volante da cui era disceso ma la nascose in un luogo conosciuto solo da pochi saggi. I loro discendenti avrebbero saputo che cosa farne al momento opportuno, perché le sue istruzioni erano rimaste scolpite su un disco di pietra. Ma se qualcuno avesse compiuto un errore, la nave sarebbe volata via per raggiungere il suo padrone. Così Quetzalcoatl e gli altri dèi si allontanarono dai mortali volando verso la stella del mattino. Un secolo dopo Montezuma II arrivò a Tlapán e convocò i saggi affinché svelassero il segreto di Quetzalcoatl, poiché quella ingombrante storia circolava per tutto l’impero. Allora gli astuti sudditi raccontarono che il significato del disco di pietra era stato esagerato. In realtà si trattava di un calendario utile sia per predire i cicli astronomici sia per stabilire i momenti propizi alla semina e al raccolto. Con il beneplacito dell’imperatore fu confermato che Tlapán era il miglior punto di osservazione per lo studio dei destini e degli astri. In ogni caso la regione fu in seguito abbandonata a causa dell’arrivo dell’uomo bianco. Ma la verità climatica e geografica, deformata dalla leggenda, venne ristabilita alcuni secoli dopo quando uno dei radiotelescopi della catena mondiale venne collocato su un’altura della zona, nota come “monte Tlapán”. Inoltre la regione, ed in particolare il parco archeologico che si trovava nelle vicinanze dell’osservatorio, venne dichiarata di interesse storico. Grazie a questo il personale delle due istituzioni si incontrava per strada e si ritrovava in un villaggio noioso a raccontare storie di stelle e di regni favolosi. Quindi non sembrò strano che nella zona dello scavo si incontrassero il capo degli archeologi ed una turista giapponese che lavorava a poca distanza e che voleva conoscere la storia del luogo.
Uscendo dalla villetta si diressero verso i monti. In fretta giunsero allo scavo. Era presto; le squadre di lavoro non erano ancora arrivate ma i sorveglianti si fecero loro incontro; dalle voci sembravano allarmati.
“Rapporto della commissione d’indagine sull’incidente definito ‘ritrasmissione attraverso l’eco’. Responsabili della ricerca sul campo, Dr. M. Pri e Prof. A. Gort”. “Alle 21.12 del 15 marzo 1990 il complesso astronomico del monte Tlapán ha cessato di ritrasmettere segnali radioastronomici. Nella rete, che a quell’ora collegava le stazioni di Costa Rica, Sidney, Sining e Osaka, si è manifestata una emissione video proveniente dall’osservatorio indicato. Per 8 minuti è stata vista una figura umana fissa al posto degli abituali segnali stellari. Nel corso dell’indagine che ne è seguita i tecnici ci hanno informato del fatto che il sistema automatico di sintonia ha accidentalmente localizzato NGC-132, ricevendo segnali da una radiofonte posta a 352 anni luce. La Dr. Shoko Satiru ha dichiarato che i 17 membri del personale alle sue dipendenze sono stati concordi nell’affermare che si è verificata una caduta di tensione durata otto minuti, dopo i quali il sistema si è riattivato. Sulla base di tutto ciò il monte Tlapán sarebbe dovuto rimanere silenzioso su tutta la rete. Tuttavia l’emissione di una immagine video da quel punto ci induce a considerare la possibilità che l’eco di una televisione commerciale sia entrata in interferenza con Tlapán sostituendo il segnale della fonte stellare con quello della propria emissione. Fenomeni di questo tipo sono stati registrati in precedenza e sono attribuiti a rifrazioni televisive sul contrafforte della Sierra Madre del Sur”. “Non avendo altri elementi da aggiungere, porgiamo distinti saluti. M. Pri e A. Gort México DF, 20 marzo 1990” Erano trascorsi cinque giorni da quando nell’osservatorio si era verificato quel fenomeno. Le scosse telluriche si succedevano con frequenza e intensità sempre maggiori. All’inizio i sismologi di Città del Messico ne attribuirono la responsabilità alla solita Sierra Madre. Era noto che esisteva una faglia lungo la quale alcune zolle tettoniche slittavano periodicamente producendo gravi cataclismi. Ma poi l’atteggiamento era cambiato. Una vasta zona di Tlapán era circondata di misuratori e sismografi. L’esercito aveva teso un cordone per evitare che i curiosi arrivati da ogni parte si avvicinassero a luoghi considerati pericolosi. Ora era maturata la certezza che si stesse registrando un’attività vulcanica sotterranea e che se le cose fossero continuate così si sarebbe verificata un’esplosione. I grafici mostravano una curva che avrebbe assunto un andamento esponenziale nel giro di poco tempo. All’inizio i sismi si ripetevano ogni dodici ore, poi ogni otto e così via. Osservatorio e scavi furono evacuati e con i binocoli si potevano vedere reporters televisivi aggirarsi furtivamente oltre la zona consentita. Al tramonto Shoko e Pedro mostrarono le loro credenziali e dopo molte insistenze fu permesso loro di oltrepassare lo sbarramento per avvicinarsi ai monti. A pochi chilometri da Tlapán lasciarono la strada e si fermarono nel letto di un torrente secco per cercare riparo dal vento che a tratti diventava un uragano.
Verso mezzanotte il vento e gli scuotimenti della terra erano cessati. Pedro cercò di avviare il motore della macchina ma senza riuscirvi. La notte calda e bella li indusse a risalire fino alla strada. Luna e stelle permettevano di vedere senza difficoltà. Si fermarono bruscamente. I cavi dell’alta tensione, che portavano l’energia elettrica alla zona, ronzavano sordamente ed emettevano un fulgore azzurro lungo tutto il loro percorso. E di fronte ai cavi il monte Tlapán mostrava la sua sagoma intrisa di bagliori. Se ci si fosse trovati nel nord del mondo si sarebbe potuto dire che si trattava di un’aurora boreale che era caduta in verticale e che danzava cambiando colore di continuo. Si sedettero cautamente su dei sassi per osservare lo spettacolo e presto videro che le luci del villaggio si accendevano e spegnevano seguendo il ritmo dei bagliori di Tlapán. Quando questo aumentò il proprio fulgore, il villaggio rimase definitivamente al buio. Allora passarono in rassegna le loro confuse idee. Il telecomando aveva generato una armonica che aveva attivato i motori del radiotelescopio. Questo, eseguendo una scansione di sorgenti radio, si era fermato esattamente su NGC-132, distante 352 anni luce, captando immagini prodotte 704 anni prima in quello stesso luogo. Il punto era entrato in risonanza con se stesso fino a che la rotazione terrestre aveva spostato la parallasse del fascio luminoso di otto minuti. Ma una cosa simile poteva accadere solo a patto di essere stati effettivamente lì 704 anni prima. Questo non era credibile. Ma poteva anche essere accaduto che il telecomando avesse attivato un gigantesco amplificatore di energia che si trovava nell’osservatorio o ad esso vicino. Esso avrebbe elevato i microvolt delle scariche cerebrali fino ad una frequenza di 16 cicli al secondo e questo spiegava gli effetti stroboscopici osservati. In altre parole l’amplificatore sarebbe stato in grado di proiettare le immagini con cui in quel momento operava un sistema nervoso prossimo, per esempio quello di chi stava pensando alla fotografia della Cacciatrice. Queste immagini amplificate avrebbero potuto interferire con il radiotelescopio. Sappiamo che l’attivazione di tale amplificatore ha causato un assorbimento ionico che ha finito per spostare strati d’aria causando raffiche di vento. Del resto la perturbazione elettrica associata all’assorbimento ha rotto la resistenza ohmica tra le zolle geologiche rendendole maggiormente conducibili e causando così spostamenti tra di esse; da ciò gli scuotimenti della terra. Dunque si è attivato un amplificatore la cui esistenza è però impossibile. Il salto nel passato è altrettanto impossibile e neppure immaginabile come ipotesi. Tutto è in contraddizione, dall’inizio alla fine. La luminosità di Tlapán aumentava all’avvicinarsi dell’alba. Quando il pianeta Venere emerse all’orizzonte, salì un ruggito che crebbe fino a diventare insopportabile. I tralicci dell’alta tensione ondeggiarono e molti si staccarono dalle loro basi. Pedro e Shoko si appiattirono a terra e cominciarono a sentire le scosse di un forte terremoto. Tlapán emetteva lampi sempre più intensi finché, all’improvviso, la sua vetta volò via come sotto l’effetto della dinamite… L’osservatorio era scomparso e il monte si era rotto come il guscio di un uovo. Enormi frammenti caddero intorno e poi venne il silenzio. Una gigantesca massa metallica cominciò a innalzarsi lentamente da quello che era stato il monte. Sfolgorando in fiammate dai colori cangianti salì sempre di più fino a rivelarsi come un enorme disco. Poi cominciò a spostarsi in direzione dei terrorizzati osservatori. Per un po’ rimase fermo sopra di loro per cui poterono vedere sulla nave il simbolo di Quetzalcoatl. Alla fine il disco partì bruscamente in direzione della stella del mattino. Allora la memoria profonda di Shoko fu libera e lei capì che la Cacciatrice si era distaccata per sempre dalla sua prigione di pietra.
A Danny.
Le attrezzature ed i programmi di spazio virtuale si vendevano bene. Tra i compratori gli studenti di storia e di scienze naturali risultavano i più numerosi. Ma aumentava la richiesta da parte di un pubblico più vasto che preferiva una dose di divertimento alle lunghe passeggiate tra le piramidi egizie o tra la flora e la fauna amazzoniche. Si potevano compiere viaggi solitari, in compagnia o guidati; molti tuttavia preferivano disporre di un selettore che compariva al semplice movimento di un dito. Il catalogo era ricco. Dai rifacimenti di vecchi film, in cui i protagonisti erano gli stessi utenti, si era passati ad adattare i videogiochi che consentivano di combattere nello spazio o di intrattenere storie d’amore con i personaggi-simbolo dell’epoca. Era come partecipare ad un fumetto o ad una storia piena di stimoli; stimoli tanto reali che non erano mancati gli infarti quando alcuni appassionati del terrore avevano usato programmi non raccomandati dal Comitato per la Difesa del Sistema Nervoso Debole. I computer accettavano i programmi più assurdi ed in un’atmosfera come quella erano comparsi pirati che avevano introdotto virus virtuali, provocando dissociazioni della personalità ed incidenti psicosomatici. Era così semplice infilarsi il casco ed i guanti, accendere il computer e scegliere un programma, che i bambini lo facevano ogni giorno nelle ore dedicate agli spostamenti.
Nella sezione tutti usavano nomi di battaglia. Era una pratica asettica. Alpa organizzava il piano di lavoro e sovrintendeva al Progetto, coordinando le attività dei membri di un gruppo che si era andato costituendo nel corso degli anni. Era stata ingaggiata nelle Alpi per il suo strano modo di allenare grandi sciatori. Mentre altri insegnanti insistevano sullo sforzo fisico prolungato, lei riuniva i propri allievi in una stanza dove proiettava e riproiettava immagini dello slalom gigante o del salto dal trampolino. Presentato lo scenario ed il percorso di ciascuna prova, lasciava la stanza al buio e chiedeva ai partecipanti di immaginare ripetutamente ogni movimento ed ogni spostamento sulla neve. A volte accompagnava questo lavoro con una musica dolce che poi, durante le ore del sonno, invadeva il rifugio. Così accadeva che alcuni, pur senza essere andati in pista prima della gara, vi si muovevano come se avessero sempre vissuto lì. Ténetor III aveva saputo di Alpa attraverso una videocassetta sugli sport invernali. Incuriosito da quel modo di lavorare, era andato a Sils Maria e così era entrato in contatto con lei. L’ultimo membro ingaggiato era stato Seguidor, responsabile del personale addetto ai sistemi di tecnologia avanzata. Questi, con Hurón e Faro, faceva parte di un gruppo che poteva stare insieme solo grazie alle attenzioni dell’ineffabile Jalina, persona particolarmente dotata per la creazione di ambienti umani cordiali. Senza dubbio Ténetor III, in quanto specialista in comunicazione, era l’asse portante di una serie di attività che Alpa definiva caso per caso, ponendo sempre in primo piano il rispetto dei cronogrammi ed il raggiungimento degli obiettivi. L’équipe costituiva una sezione del Comitato per la Difesa del Sistema Nervoso Debole e, grazie al fatto che Ténetor era appunto il direttore di questa istituzione, il gruppo poteva operare tranquillamente.
Alla fine del XX secolo, alcuni scienziati guidati da un oscuro funzionario dell’UNESCO erano arrivati alla conclusione che nel giro di pochi decenni l’85% della popolazione mondiale sarebbe stato formato da analfabeti funzionali. Avevano calcolato che l’analfabetismo primario sarebbe stato eliminato in breve tempo, mentre di pari passo grandi masse umane avrebbero sostituito libri, riviste e giornali con la TV, i video, i computer e le proiezioni olografiche. Tutto ciò in sé non costituiva un grave inconveniente perché l’informazione avrebbe continuato a fluire in quantità maggiore rispetto a ogni altra epoca ed a velocità crescente. Tuttavia, un aumento dell’incapacità di strutturare i dati non avrebbe avuto conseguenze solo su individui isolati ma avrebbe finito per influire sull’intero sistema sociale. Per quanto riguarda la specializzazione le prospettive erano interessanti, poiché si creavano le condizioni per un lavoro analitico e graduale che ripeteva il modo di funzionare dei computer. Purtroppo però si sarebbe fatta sentire anche l’incapacità di stabilire relazioni globali coerenti. In quel periodo la sfiducia nei confronti delle sintesi nel campo del pensiero era così profonda che qualsiasi conversazione su argomenti generali, protratta oltre i tre minuti, veniva bollata come “ideologica”. In realtà ogni tentativo di arrivare ad un punto di vista globale si concludeva in maniera penosa. Si poteva concentrare l’attenzione solo su temi specifici e, sia nelle istituzioni educative sia nel lavoro quotidiano, tale abitudine diventava sempre più comune. Gli storici studiavano le leghe metalliche degli anelli dell’Etruria per spiegare il funzionamento di quella società mentre gli antropologi, gli psicologi ed i filosofi erano asserviti ai computer che effettuavano analisi grammaticali. Erano tali l’esteriorità ed il formalismo di un pensare e di un sentire concentrato sui dettagli che ogni cittadino cercava sempre il modo di essere speciale ed originale in qualche aspetto dell’abbigliamento. Purché ci fosse progresso nella medicina e nell’industria del divertimento, tutto il resto era secondario; secondario era il destino di quei popoli e di quelle comunità che erano entrate in un processo degenerativo per non essersi adattate al nuovo ordine mondiale; secondaria era la vita delle nuove generazioni che si dissanguavano in una vile competizione all’inseguimento di un miraggio effimero. Del resto erano decenni che la capacità di formulare teorie scientifiche generali era venuta meno per cui tutto si riduceva all’applicazione di tecnologie che, come una mandria in preda alla confusione, correvano in tutte le direzioni. Così il funzionario dell’UNESCO presentò una relazione ed una richiesta di finanziamenti per studiare quella patologia sociale e le sue tendenze a medio termine. Gli fu immediatamente assegnata una sostanziosa somma per la ricerca, forse perché coloro che decidevano avevano inteso che tale sforzo sarebbe servito al perfezionamento di tecniche efficientistiche. Grazie a questo malinteso fu possibile lavorare per diversi anni. Infine venne creato il Comitato con il ruolo di organismo paraculturale abilitato a fare divulgazione ed a fornire consulenza nei paesi che, attraverso le Nazioni Unite, sostenevano l’UNESCO. Alcuni decenni dopo, scomparsa l’UNESCO, il Comitato continuò a funzionare senza che si sapesse bene da chi fosse appoggiato. Comunque era riconosciuto come una istituzione di pubblica utilità sostenuta a livello mondiale da privati di buona volontà. Il Comitato presentò relazioni annuali che nessuno prese troppo sul serio ma oltre a questa attività indirizzò le sue ricerche verso lo sviluppo di un modello di comportamento umano esente dalle difficoltà che si vedevano crescere di giorno in giorno. In quel tempo il Comitato era convinto che un tipo di istruzione e di informazione destrutturata stesse già bloccando certe aree cerebrali, provocando così i primi sintomi di una epidemia psichica che sarebbe risultata incontrollabile. Il “Progetto”, come lo chiamavano i suoi responsabili, doveva prendere in considerazione la possibilità di mettere a punto un “antidoto” capace di sbloccare l’attività mentale. Ma in quel momento non si sapeva ancora se si dovevano sviluppare procedure di addestramento fisiologico, se bisognava sintetizzare sostanze chimiche benefiche o se era necessario dedicarsi alla progettazione di attrezzature elettroniche che avrebbero consentito di raggiungere l’obiettivo. Di sicuro c’era che a poco a poco milioni di esseri umani bloccati si stavano inserendo in attività collettive. Quegli esseri, sempre più specializzati e sempre meno adatti a ragionare sulle loro stesse vite, avrebbero finito per disarticolare la società che, priva di obiettivi, si sarebbe dibattuta tra i suicidi, la nevrosi ed un pessimismo crescente. Quell’oscuro funzionario, prima di morire, assunse il nome di Ténetor I e lasciò il Progetto nelle mani dei suoi più stretti collaboratori.
Quando la superficie di questo mondo cominciò a raffreddarsi, venne un precursore che scelse il modello di processo che avrebbe dovuto autosostenersi. Nulla gli parve più interessante che immaginare una matrice con n possibilità progressive divergenti. Allora creò le condizioni per la vita. Con il tempo i tratti giallastri dell’atmosfera primitiva virarono verso l’azzurro e gli scudi di protezione cominciarono a funzionare a livelli accettabili. In seguito il visitatore osservò i comportamenti delle diverse specie. Alcune erano avanzate verso la terra ferma e timidamente vi si erano insediate, altre erano retrocesse di nuovo nei mari. Numerose forme mostruose appartenenti a diversi ambienti erano scomparse mentre altre avevano continuato a trasformarsi liberamente. Qualunque combinazione casuale era stata lasciata evolvere finché era apparsa una creatura di medie dimensioni capace di essere assolutamente discente, adatta a trasferire informazioni ed ad accumulare memoria al di là del suo ciclo vitale. Questo nuovo mostro aveva seguito uno degli schemi evolutivi adatti al pianeta azzurro: un paio di braccia, un paio di occhi, un cervello diviso in due emisferi. In esso quasi tutto era elementarmente simmetrico proprio come i pensieri, i sentimenti e le azioni che erano rimasti codificati alla radice del suo sistema chimico e nervoso. L’ampliamento del suo orizzonte temporale e la formazione di diversi livelli di sensazione nel suo spazio interno avrebbero richiesto ancora altro tempo. Nella situazione in cui si trovava, a malapena poteva differire le proprie risposte o distinguere tra percezione, sogno ed allucinazione. La sua attenzione era erratica e, ovviamente, non rifletteva sulle proprie azioni perché non poteva cogliere la natura intima degli oggetti con cui entrava in relazione. Tutti i suoi sensi erano specializzazioni del tatto primitivo per cui interpretava il mondo in base alla distanza tattile tra sé e gli oggetti; era chiaro che, fino a quando avesse continuato a considerarsi semplice riflesso del mondo esterno, non avrebbe potuto lasciar esprimere la sua intenzione più profonda capace di mutarne la mente stessa. Sui due modi del prendere e del fuggire aveva modellato i suoi primi affetti che si esprimevano quindi come attrazione o rifiuto; questa bipolarità rozza e simmetrica, abbozzata già nelle protospecie, tendeva a modificarsi molto lentamente. Per ora la sua condotta era troppo prevedibile ma sarebbe giunto il momento in cui, autotrasformandosi, avrebbe compiuto un salto verso l’indeterminazione e la casualità. Così, il visitatore era in attesa di una nuova nascita all’interno di quella specie in cui aveva riconosciuto la paura di fronte alla morte e la vertigine della furia distruttiva. Aveva osservato come quegli esseri vibrassero per l’allucinazione dell’amore, come si sentissero angosciati di fronte alla solitudine dell’Universo vuoto, come immaginassero il proprio futuro, come lottassero per decifrare le prime impronte lasciate sul sentiero nel quale erano stati scaraventati. Prima o poi questa specie fatta con l’argilla del cosmo avrebbe intrapreso il cammino che l’avrebbe portata a scoprire la propria origine, ma quel cammino sarebbe risultato imprevedibile.
Quel giorno Ténetor III avrebbe provato il nuovo materiale fornito da Seguidor. Si diresse perciò verso la camera anecoica ed entrandovi posò lo sguardo sul rilucente lettino delle prove, al centro di un ambiente vuoto. Con il suo abito aderente, il casco, i guanti e gli stivali bassi, si sentì come un antico motociclista vestito di una tuta di argento. Si distese in un attimo con fare deciso ma poi preferì un’altra posizione nella quale l’attrezzatura gli si modellò come un sedile morbido, leggermente inclinato all’indietro. Adesso avrebbe osservato faccia a faccia la natura di un nuovo fenomeno senza le proiezioni dei programmi artificiali. In ogni caso il suo corpo avrebbe fornito i battiti ed i segnali che avrebbero popolato un ambiente senza interferenze. E se tutto avesse funzionato a dovere, avrebbe visto la traduzione del suo spazio mentale ottenuta grazie alla tecnologia dello spazio virtuale. Era il punto a partire dal quale il Progetto avrebbe trovato la sua via di realizzazione. Abbassò il visore e rimase al buio. Toccando un tasto del casco collegò il sistema: poco a poco cominciarono ad apparire i contorni illuminati che delimitavano la faccia interna del visore. Si trattava di uno schermo posto a circa venti centimetri dai suoi occhi. All’improvviso il suo corpo apparve sospeso all’interno di un ambiente sferico riflettente. Spostò lo sguardo in varie direzioni e riuscì a monitorarlo con precisione. L’effetto ottenuto non gli sembrò di particolare interesse, considerato che i suoi nervi ottici trasmettevano segnali all’interfaccia collegata al processore centrale. Muovendo gli occhi verso destra, le immagini correvano in senso inverso fino a occupare il centro dello spazio visivo; facendolo verso l’alto la proiezione scendeva e così via in tutte le combinazioni che provò. Indirizzò lo sguardo verso la punta del suo stivale destro, lo mise a fuoco sforzandosi appena di coglierne i particolari ed a quel punto lo zoom avvicinò l’oggetto sempre di più fino a che questo occupò tutto lo schermo. Poi, riaccomodando il cristallino, indietreggiò fino a vedersi come un piccolo punto che brillava al centro dell’ambiente riflettente. Il programma ottico aveva la capacità di ingrandimento e di definizione dei migliori microscopi elettronici ed aveva anche la capacità di avvicinamento dei telescopi più sofisticati, per quanto questa possibilità fosse al momento non utilizzabile poiché non si poteva vedere niente del mondo astronomico nella proiezione fornita dal casco. Oggi le cose avrebbero potuto migliorare se avessero funzionato i rivelatori che Seguidor aveva collocato sulla superficie interna degli indumenti sensibili. L’informazione doveva apparire sullo schermo man mano che gli impulsi nervosi attivavano i diversi punti del corpo. Toccò il secondo tasto collocato sul casco e subito una colonna alfanumerica cominciò a scorrere nella zona sinistra del visore, mentre nell’angolo destro appariva un piccolo rettangolo in cui era ripresa la sua mano appoggiata sul casco. Abbassò lentamente il braccio e la colonna ricominciò a fornire dati mentre nel riquadro l’immagine del suo braccio si spostava in basso. Deglutì ed i dati ricominciarono a scorrere. Nel riquadro apparve l’interno della sua bocca e poi l’esofago che si muoveva appena. Durante una nuova prova pensò a Jalina ed il rettangolo fece apparire il suo cuore che batteva a una velocità maggiore di quella normale; poi i polmoni si dilatarono un po’ ed apparve il sesso il cui colore tendeva ad un rossiccio chiaro. La colonna intanto, forniva informazioni su diversi fenomeni intracorporei: pressione, temperatura, acidità, alcalinità, composizione di elettroliti nel sangue e percorso degli impulsi. Mise a fuoco lo sguardo davanti a sé e lui stesso ricomparve sullo schermo, sospeso nella camera sferica. Era evidente che si guardava da un punto di osservazione esterno, un po’ deformato, come avviene quando ci si guarda in uno specchio concavo. Allora cominciò a respirare in modo lento e profondo. Poco dopo i rivelatori cominciarono a funzionare a regime. Ancora un istante e rallentò il ritmo della respirazione rendendolo simile a quello del sonno profondo e così, a poco a poco, vide che l’immagine si avvicinava fino ad apparire fuori dallo schermo, che si accostava sempre di più ai suoi occhi finché dopo averli toccati scompariva in una sorta di fusione trasparente. Tutto rimase al buio come se il sistema fosse stato disattivato. Allungò un braccio e l’ambiente oscuro sembrò lacerarsi lasciando intravedere una luce lontana. Immaginò di avvicinarsi alla luce mentre sui bordi del visore la colonna ed il riquadro segnalavano le modificazioni fisiche corrispondenti al suo processo mentale. Così si sforzò di sentire che avanzava nei cunicoli materiali dello spazio virtuale. Nella galleria in penombra la sensazione di estraneità cominciò a svanire perché aveva riconosciuto la vivida dimensione delle grotte scavate nei monti, gli odori umidi che ridestano ricordi di emozioni gradevoli, la resistenza della pietra, le rugosità e le distanze tra le cose. Negli indicatori vide un camminare lento e, in successione, le diverse parti del suo corpo a mano a mano che si attivavano. Davanti a lui apparve una figura incappucciata ma presto vide nel riquadro che quell’immagine era la traduzione di piccoli movimenti dei muscoli della lingua nella caverna della sua bocca. Socchiudendo gli occhi vide delle luci tutt’intorno ma comprese che si trattava di semplici scariche nervose amplificate che stimolavano i muscoli delle palpebre. Gli indumenti sensibili rivelavano bene anche i movimenti corporei infinitesimali corrispondenti alle immagini mentali. La situazione, comunque, era quella di un’allucinazione. La figura incappucciata gli porse un recipiente e lui prendendolo tra le mani ne bevve il contenuto che sentì passare nella gola con la stessa realtà che ha l’acqua fresca nell’arsura del deserto. Adesso era in grado di attraversare la caverna e di uscire nello spazio esterno…
Dopo la morte di Ténetor I nel Comitato sopraggiunse una crisi profonda. Tutti i membri erano d’accordo sul fatto che il comportamento umano andava peggiorando sotto molti aspetti. Riconoscevano anche che l’esplosione della tecnologia forniva ogni giorno nuove possibilità. Due posizioni si scontravano nell’interpretazione dei fatti. Da una parte gli “scientifici” osservavano che, negli insiemi umani, comportamenti sociali ripetuti modificavano le aree di lavoro cerebrali. Questo generava un tipo particolare di sensibilità e di percezione dei fenomeni. Di conseguenza, tanto i direttori delle multinazionali quanto i formatori di opinione al loro servizio davano al processo sociale una direzione in accordo con i codici in cui loro stessi si erano formati. Analogamente i pedagoghi, nel loro sforzo di migliorare l’istruzione e l’insegnamento, cadevano in un circolo vizioso che rialimentava le loro particolari credenze. Gli “scientifici” ritenevano impossibile un mutamento di direzione restando all’interno di un processo meccanico che chiamavano il “Sistema” e rimanevano legati ad una vecchia tesi einsteiniana che sosteneva: “All’interno di un sistema, nessun fenomeno può evidenziarne il movimento”. Richiamavano in continuazione l’esempio di questo vecchio maestro, che aveva insegnato che se un viaggiatore collocato nel vagone di un treno in movimento a 120 chilometri orari fa un salto sul posto in cui è seduto non per questo cade su un altro vagone del treno. In un sistema inerziale, sia che si tratti del treno preistorico che di un veicolo spaziale, il salto all’interno del sistema non avrebbe alcun effetto. In ogni caso bisognerebbe impadronirsi della guida del treno o della nave per cambiarne la direzione. A tutto ciò gli “storici” rispondevano dicendo che coloro i quali avessero assunto la guida del veicolo lo avrebbero deviato seguendo i criteri con i quali si erano formati. E si chiedevano: “Qual’è la differenza tra le guide precedenti e quelle nuove se tutte agiscono sulla base dei paesaggi in cui si sono formate, sulla base delle loro aree cerebrali più attive? La differenza starebbe solo negli interessi specifici di coloro che vogliono guidare il veicolo”. Partendo da queste considerazioni gli “storici” puntavano su processi di più ampio respiro, ispirandosi ad altri momenti storici nei quali, per motivi di sopravvivenza, gli esseri viventi avevano modificato le loro abitudini e si erano trasformati. Ma riconoscevano anche che molte specie erano scomparse per la difficoltà ad adattarsi. Era una discussione che non si sarebbe mai conclusa. In quella situazione la gestione del Comitato fu assunta da Ténetor II, scelto per la sua equidistanza dalle posizioni in conflitto. Ténetor II stabilì come obiettivi del Progetto la ricerca delle migliori produzioni umane e su questo sia gli “scientifici” sia gli “storici” si trovarono d’accordo. Postosi all’opera, mise insieme un’immensa raccolta di quelle conoscenze scientifiche ed artistiche che avevano apportato un miglioramento del processo umano rendendo possibile il superamento del dolore e della sofferenza. Dalla sua posizione di guida del Comitato diede un forte impulso alla selezione del personale incaricato di formare le nuove leve in base alle idee del Progetto. Si trattava di un compito arduo che seguí personalmente, individuando persone capaci di uscire dalle credenze e dai modelli consolidati dal Sistema e che gestivano la propria vita in base a valori e comportamenti considerati atipici dal punto di vista dell’efficientismo in voga. Quando quel singolare drappello fu pronto, chiamò l’organizzazione “Comitato per la Difesa del Sistema Nervoso Debole”, il quale funzionava come un’istituzione impegnata a salvare e proteggere individui intellettualmente inadatti perché incapaci di adattarsi al Sistema. Inoltre divise il Comitato in sezioni specializzate, una delle quali si dedicò ad elaborare materiali educativi per i disadattati di tutto il mondo. Parallelamente mise a punto programmi di protezione ed antivirus per le ditte produttrici di software che lottavano contro i pirati dell’informatica. Ténetor II si stabilì in Mesopotamia per portare avanti uno studio sul campo, mantenendosi in contatto permanente con la sede del Comitato. Ma un bel giorno, mentre si stava spostando tra i fiumi Tigri ed Eufrate, i suoi segnali si interruppero. Poche ore dopo, con una spedizione di salvataggio, Faro e Hurón arrivavano sul posto ma trovarono solo la sua macchina, i suoi strumenti di misura ed un cristallo informativo. Da quel momento in poi non si ebbero piú notizie dell’esploratore.
Ténetor III si fermò nella caverna. Era in grado di uscire nello spazio esterno. “Quale spazio esterno?”, si domandò. Sarebbe bastato togliersi il casco per ritrovarsi seduto nella camera anecoica. Alle prese con questo dubbio, ricordò la scomparsa di Ténetor II e l’informazione incoerente che il cristallo aveva fornito quando era stato attivato: una monotona olografia in cui l’esploratore appariva cantando qualcosa che somigliava ad un lungo lamento. Questo era tutto. Ma ricordò anche la voce del suo maestro; udì i versi che tanto tempo prima questi aveva fatto ondeggiare come brezza marina; ascoltò la musica d’archi ed il suono dei sintetizzatori; vide le tele fosforescenti ed i dipinti che crescevano sulle pareti di manganese flessibile; sfiorò di nuovo con la sua pelle le sculture sensibili… Da lui aveva ricevuto la dimensione di quell’arte che toccava gli spazi profondi, profondi come gli occhi neri di Jalina, profondi come quel tunnel misterioso. Respirò forte ed avanzò verso l’uscita della grotta. Era un bel pomeriggio in cui i colori sembravano esplodere. Il sole tingeva di rosso i profili delle montagne mentre i due fiumi lontani serpeggiavano tra bagliori di oro ed argento. Allora Ténetor III assistette alla scena che l’olografia aveva mostrato in modo frammentario. Lì stava il suo predecessore che cantava rivolto alla Mesopotamia:
Oh, Padre, trai dal recondito le lettere sacre. Avvicina quella fonte in cui ho sempre potuto vedere i rami aperti del futuro!
E mentre il canto si moltiplicava in echi lontani, in cielo apparve un punto che si avvicinava velocemente. Ténetor regolò lo zoom su quella distanza ed allora vide chiaramente delle ali ed una testa d’aquila, un corpo ed una coda di leone, un volo maestoso da nave, un metallo vivo, un mito e una poesia in movimento che rifletteva i raggi del sole calante. Il canto continuava mentre si delineava la figura alata che allungava le sue forti zampe di leone. Allora si fece silenzio ed il grifone celeste aprì l’enorme becco d’avorio per rispondere con un grido che, rotolando per le vallate, ridestò le forze del serpente sotterraneo. Alcune pietre alte si sgretolarono sollevando nella caduta nuvole di sabbia e di polvere. Ma tutto si placò quando l’animale si posò dolcemente a terra. Allora un cavaliere saltò giù davanti all’uomo che ringraziò dentro di sé per l’arrivo tanto atteso del padre. Ed il cavaliere tirò fuori da una bisaccia appesa al grifone un libro grande, antico come il mondo. Poi, seduti sul suolo pietroso dai mille colori, padre e figlio respirarono il tramonto; si guardarono a lungo ed aprirono il vecchio volume. Ad ogni pagina si affacciavano sul cosmo; in una sola lettera videro muoversi le galassie a spirale, gli ammassi globulari aperti. I caratteri danzavano sulle antiche pergamene ed in essi si leggeva il movimento del cosmo. Quindi i due uomini (ammesso che fossero uomini) si alzarono in piedi. Il più vecchio, con i suoi lunghi abiti scomposti e mossi dall’arbitrio del vento, sorrise come nessuno aveva mai potuto sorridere in questo mondo. Nel cuore di Ténetor III risuonarono le sue parole: “Una nuova specie si aprirà all’Universo. La nostra visita è terminata!”. E nient’altro. Nient’altro. Davanti agli occhi di Ténetor stavano i fiumi che serpeggiando tra bagliori di oro e argento si trasformavano a momenti nelle ramificazioni arteriose e venose che irroravano il suo corpo. Nel rettangolo del visore apparivano i suoi polmoni che rivelavano l’ansimare della respirazione e questo gli fece comprendere da dove veniva il battito delle ali del grifone. Ed in un angolo della sua memoria seppe ritrovare le immagini mitiche che aveva visto plasmarsi con tanto realismo. Decise di tornare alla grotta mentre osservava la colonna alfanumerica che scorreva su un lato dello schermo. Immediatamente il riquadro mostrò il movimento che, in maniera quasi impercettibile, le sue immagini gli inducevano nelle gambe e cosí penetrò nella caverna. “So quel che faccio,” pensò, “so quel che faccio!”. Ma queste parole dette tra sé rimbombarono all’esterno, giunsero al suo udito dal di fuori. Guardando la parete rocciosa sentì frasi che si riferivano ad essa… Stava infragendo la barriera delle espressioni verbali in cui si incrociano i vari sensi; forse per questo ricordò quei versi che il suo maestro recitava:
A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles. Je dirai quelque jour vos naissances latentes
Poi vide una pietra le cui punte si aprivano come fiori colorati ed in quel caleidoscopio comprese che stava rompendo la barriera della visione. Ed oltrepassò tutti i sensi come fa l’arte profonda quando arriva a toccare i limiti dello spazio dell’esistenza. Sollevò il casco e si ritrovò nella camera anecoica ma non era solo. Per qualche motivo l’intera sezione gli stava attorno. Jalina lo baciò dolcemente mentre l’impazienza dei presenti si faceva sentire con forza.
Ma poi spiegò che si sarebbe subito dedicato ad elaborare un rapporto che gli altri non avrebbero dovuto conoscere fino a quando ciascuno non avesse fatto la propria parte. Così si decise che, uno dopo l’altro, i membri della sezione avrebbero fatto il viaggio nello spazio virtuale puro. Alla fine i dati privi di influenze reciproche sarebbero stati elaborati e soltanto allora sarebbe arrivato il momento di cominciare a discutere. Perché se tutti avessero riconosciuto lo stesso paesaggio nello spazio virtuale puro, il Progetto si sarebbe realizzato. Ed in che modo lo si sarebbe fatto arrivare a tutto il mondo? Nel modo utilizzato per qualunque tecnologia. Inoltre i canali di distribuzione erano stati aperti da quella rete di persone eccezionali che erano andate oltre il guscio di esteriorità a cui il genere umano era stato ridotto. Ora egli sapeva di esistere e che tutti gli altri esistevano e che questa era la prima di una lunga serie di priorità.