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Lettere ai miei amici - 10

DECIMA LETTERA AI MIEI AMICI

Cari amici,

Quale destino ci riservano gli avvenimenti attuali? Gli ottimisti pensano che stiamo andando verso una società mondiale opulenta nella quale i problemi sociali verranno risolti: una specie di paradiso in Terra. I pessimisti ritengono che i problemi attuali siano i sintomi di una malattia sempre più grave di cui sono affette le istituzioni, i gruppi umani e anche il sistema demografico ed ecologico globale: una specie di inferno in Terra. Quelli che relativizzano la meccanica storica fanno dipendere tutto dal comportamento che assumiamo in questo momento; il cielo o l’inferno saranno la conseguenza del nostro operato. Ovviamente ci sono coloro a cui importa soltanto ciò che accadrà a loro stessi. Tra tante opinioni ci sembra interessante quella che fa dipendere il futuro da ciò che facciamo oggi. Ma anche all’interno di questo punto di vista esistono valutazioni differenti. Alcuni sostengono che le banche e le multinazionali, dalla cui voracità questa crisi è stata provocata, faranno scattare dei meccanismi di salvaguardia appena si giungerà ad un punto pericoloso per i loro interessi, come è già accaduto in altre occasioni. Per quanto riguarda le azioni da portare avanti costoro auspicano l’adattamento graduale ad un processo di riconversione del capitalismo che andrà a beneficio della maggioranza della popolazione. Altri, invece, sostengono che non bisogna far dipendere tutto dal volontarismo di una minoranza ma che è necessario rendere manifesta la volontà della maggioranza attraverso l’azione politica e la presa di coscienza del popolo, che il sistema economico dominante sottopone ad una vera e propria estorsione. Secondo costoro arriverà il momento in cui il sistema entrerà in uno stato di crisi generale del quale la causa rivoluzionaria dovrà approfittare. Ci sono poi coloro che sostengono che tanto il capitale che il lavoro, così come le culture, i paesi, le forme organizzative, le espressioni artistiche e religiose, i gruppi umani e gli stessi individui si trovano presi nella rete di un processo di accelerazione tecnologica e di destrutturazione che non sono in grado di controllare. Si tratta di un lungo processo storico, il quale oggi provoca una crisi mondiale che coinvolge tutti i modelli politici ed economici, non dipendendo da questi né la disorganizzazione generale né un’eventuale ripresa generale. Quanti difendono questa visione strutturale insistono sul fatto che è necessario comprendere in modo globale questo fenomeno e parallelamente agire negli ambiti minimi specifici in cui si svolge la vita sociale, di gruppo e personale. Dato che il mondo è ormai interconnesso, costoro non sostengono una politica sociale gradualista che con il tempo e passo dopo passo dovrebbe essere adottata ovunque ma cercano di generare una serie di “effetti dimostrativi” sufficientemente energici da imprimere al processo un cambiamento generale di direzione. Di conseguenza costoro insistono sulle potenzialità costruttive dell’essere umano, sulla sua capacità di trasformare i rapporti economici, di modificare le istituzioni e di lottare instancabilmente per rendere innocui tutti quei fattori che stanno determinando un’involuzione apparentemente senza ritorno. Noi aderiamo a quest’ultimo punto di vista. E’ chiaro che tanto questo come i precedenti sono stati qui semplificati e che inoltre ne sono state tralasciate le numerose varianti.

1. La destrutturazione e i suoi limiti

Risultando chiaro che la destrutturazione politica non si arresterà finché non avrà raggiunto la base sociale e l’individuo, sembra opportuno descrivere con precisione i limiti di un tale processo. Facciamo qualche esempio. In alcuni paesi è più evidente che in altri la crisi del potere politico centralizzato. In questi casi il rafforzamento delle autonomie o la pressione delle correnti secessioniste fa sì che determinati gruppi d’interesse o dei semplici opportunisti cerchino di fermare il processo di destrutturazione esattamente nel punto in cui il controllo della situazione rimane nelle loro mani. Secondo le mire di costoro, la regione protagonista della secessione, o la nuova repubblica separatasi dal paese in cui era precedentemente inclusa, o l’autonomia liberatasi dal potere centrale dovrebbero costituire le nuove strutture organizzative. Ma succede che questi poteri finiscano per essere messi in discussione dalle microregioni, dai comuni, dalle contee, ecc. In effetti non si riesce a capire per quali ragioni un’autonomia liberatasi dal potere centrale dovrebbe a sua volta centralizzare il potere nei confronti di unità minori; e non vale certo il richiamo pretestuoso ad una lingua o a tradizioni folkloristiche comuni, o ad un’imponderabile “collettività storica e culturale”, perché, quando si tratta di riscuotere le tasse o di questioni di finanza, il folklore vale solo per il turismo e per le case discografiche. Nel caso in cui i comuni si emancipassero dal potere della nuova autonomia, i quartieri applicherebbero la stessa logica ed una tale catena continuerebbe fino agli abitanti dei condomini che vivono ai due lati di una strada. Qualcuno potrebbe dire: “Perché noi che viviamo da questa parte della strada dovremmo pagare le stesse tasse di quelli che vivono dall’altra? Noi abbiamo condizioni di vita migliori e le nostre tasse vanno a risolvere i problemi di gente che non vuole fare lo sforzo di progredire. E’ meglio che ciascuno si arrangi da sé.” Quindi in ogni casa del vicinato potrebbero sorgere le stesse inquietudini e nessuno potrebbe arrestare un simile processo meccanico nel punto per lui vantaggioso. In altre parole non si tratterebbe di qualcosa di simile ad un processo di feudalizzazione in stile medievale, caratterizzato da popolazioni scarse e distanti e da rapporti di scambio sporadici, portati avanti attraverso vie di comunicazione controllate da feudi in lotta o da bande a caccia di pedaggi. Per quanto riguarda la produzione, il consumo, la tecnologia, le comunicazioni, la densità demografica, ecc., la situazione attuale non somiglia affatto a quella di altre epoche. D’altra parte le regioni economiche ed i mercati comuni tendono ad assorbire il potere decisionale dei vecchi Stati. In una data regione le autonomie potrebbero cercare di eludere la vecchia unità nazionale; ma lo stesso potrebbero fare i comuni od i gruppi di comuni, che tenderebbero a saltare i vecchi livelli amministrativi ed a chiedere di essere inclusi, come membri a tutti gli effetti, nella nuova superstruttura. Le autonomie, i comuni od i gruppi di comuni, che potessero contare su un forte potenziale economico, avrebbero forti possibilità di essere presi in seria considerazione dall’unità regionale. Non si può escludere che nella guerra economica tra i diversi blocchi regionali alcuni paesi, membri di un blocco, stabiliscano relazioni “bilaterali o multilaterali” con un altro mercato regionale, sfuggendo all’orbita di quello nel quale erano inclusi. Perché l’Inghilterra, per esempio, non potrebbe stabilire relazioni più strette con il NAFTA nordamericano, ottenendo all’inizio eccezioni da parte della CEE? E poi, con il procedere degli scambi, che cosa le impedirebbe di inserirsi nel nuovo mercato regionale abbandonando il precedente? E se il Canada entrasse in un processo di secessione, cosa impedirebbe al Quebec di avviare negoziati fuori dell’area del NAFTA? In Sudamerica non potrebbero più esistere organizzazioni del tipo dell’ALALC o del Patto Andino se la Colombia e il Cile tendessero a integrare le loro economie con l’obiettivo di un ingresso nel NAFTA, lasciandosi alle spalle un MERCOSUR magari indebolito da una secessione in Brasile. D’altra parte se la Turchia, l’Algeria ed altri paesi del Sud del Mediterraneo entrassero a far parte della CEE, i paesi esclusi appartenenti a quell’area tenderebbero ad avvicinarsi sempre di più tra di loro per negoziare, come gruppo, con altre aree geografiche. E nel contesto dei blocchi regionali che oggi si vanno configurando, cosa ne sarà di potenze come la Cina, la Russia e l’Est europeo, caratterizzate da rapide trasformazioni in senso centrifugo? E’ probabile che le cose non andranno come negli esempi che abbiamo presentato; tuttavia la tendenza alla regionalizzazione può prendere strade inattese e ne può risultare un quadro ben differente da quello che viene oggi proposto sulla base della contiguità geografica e, quindi, sulla base del corrente pregiudizio geopolitico. In questo senso i recenti progetti che hanno come obiettivo non solo l’unione economica ma anche la formazione di un blocco politico e militare potranno subire un nuovo sconvolgimento. E siccome alla fin fine sarà il grande capitale a decidere qual è il modo migliore per far prosperare i propri affari, a nessuno dovrà dare grande sicurezza l’immagine di carte regionali tracciate sulla base della contiguità geografica, carte in cui un tempo la strada, la ferrovia ed il ponte radio svolgevano un ruolo da protagonista ma che oggi vengono ridisegnate dal traffico aereo e marittimo su grande scala e dalle comunicazioni mondiali via satellite. Già in epoca coloniale la continuità geografica era stata sostituita da una scacchiera di domini d’oltremare facenti capo alle grandi potenze, sistema, questo, che è andato declinando con i due conflitti mondiali. Per alcuni l’attuale riassetto geopolitico ci riporta ad un’epoca pre-coloniale, perché immaginano che una regione economica debba essere organizzata secondo un continuum spaziale; ma così facendo, espandono il loro specifico nazionalismo e lo trasformano in una sorta di “nazionalismo” regionale. In ultima analisi, stiamo dicendo che i limiti della destrutturazione non sono dati, a livello particolare, dai nuovi paesi che si sono emancipati o dalle autonomie liberatesi da un potere centrale né che, a livello generale, sono dati da regioni economiche organizzate sulla base della contiguità geografica. I limiti minimi della destrutturazione stanno arrivando a toccare il vicino di casa ed il singolo individuo, ed i limiti massimi la comunità mondiale.

2. Alcuni importanti campi toccati dal fenomeno della destrutturazione

Vorrei mettere in evidenza, tra i tanti possibili, tre campi toccati dalla destrutturazione: quello politico, quello religioso e quello generazionale. E` chiaro che i partiti si alterneranno nell’occupazione del già ridotto potere statale e che riappariranno come “destra”, “centro” e “sinistra”. Ma già sono molte, e molte saranno in futuro, le “sorprese”: ecco che forze date per scomparse appaiono di nuovo mentre raggruppamenti e schieramenti al potere da decenni si dissolvono nel discredito generale. Certo, questa non è una novità nel gioco politico. Ma risulterà realmente nuovo che tendenze che si supporrebbero contrapposte possano succedersi l’un l’altra senza minimamente incidere sul processo di destrutturazione dal quale, naturalmente, saranno esse stesse influenzate. E per quanto riguarda le proposte, il linguaggio e lo stile politico, ci troveremo immersi in un sincretismo generale che renderà i profili ideologici sempre più confusi. Posto di fronte a slogan e forme vuote che si combattono tra di loro, il cittadino medio si allontanerà sempre di più da qualunque partecipazione politica e finirà per concentrarsi su cose più percettibili ed immediate. Ma il malcontento sociale si farà sentire in modo sempre più palpabile attraverso lo spontaneismo, la disobbedienza civile, la rivolta e l’apparizione di fenomeni psicosociali caratterizzati da una crescita esplosiva. È a questo punto che apparirà il pericolo del neo-irrazionalismo, che potrà assumere un ruolo guida utilizzando forme di intolleranza come bandiera di lotta. In questo senso risulta chiaro che se un potere centrale cercherà di soffocare le spinte indipendentiste, si assisterà ad una radicalizzazione di posizioni che coinvolgerà i raggruppamenti politici. Quale partito potrà rimanere indifferente (a rischio di perdere la sua influenza) all’improvviso manifestarsi di un’ondata di violenza causata da una questione territoriale, etnica, religiosa o culturale? Le correnti politiche dovranno prendere posizione, proprio come succede oggi in diverse parti dell’Africa (18 punti di conflitto); dell’America (Brasile, Canada, Guatemala e Nicaragua, senza considerare le proteste delle collettività indigene dell’Ecuador e di altri paesi dell’America del Sud e tralasciando l’acuirsi del problema razziale negli Stati Uniti); dell’Asia (10 punti, includendo il conflitto cino-tibetano ma senza considerare le dispute interne che stanno emergendo in tutta la Cina); dell’Asia meridionale e del Pacifico (12 punti, comprese le rivendicazioni delle collettività autoctone dell’Australia); dell’Europa occidentale (16 punti); dell’Europa orientale (4 punti, considerando la Repubblica Ceca e la Slovacchia, la ex Jugoslavia, l’isola di Cipro e l’ex Unione Sovietica come un solo punto ciascuna, perché altrimenti, se considerassimo separatamente i vari paesi dei Balcani e le 20 repubbliche dell’ex Unione Sovietica che presentano dispute inter-etniche e di frontiera, le zone in conflitto salirebbero a 30); Medio Oriente (9 punti). Anche i politici dovranno farsi eco della radicalizzazione che si sta manifestando nelle religioni tradizionali, come già succede tra musulmani ed induisti in India ed in Pakistan, tra musulmani e cristiani nell’ex Jugoslavia e in Libano, tra induisti e buddisti nello Sri Lanka. Dovranno pronunciarsi sulle lotte tra sette di una stessa religione come già succede nella zona d’influenza dell’islam tra sunniti e sciiti e nella zona d’influenza del cristianesimo tra cattolici e protestanti. Dovranno prendere parte alla persecuzione religiosa che in Occidente è iniziata attraverso i giornali e con l’instaurazione di leggi limitanti la libertà di culto e di coscienza. E’ evidente che le religioni tradizionali tenderanno a perseguitare le nuove forme religiose che stanno sorgendo in tutto il mondo. Secondo i benpensanti, normalmente atei ma obiettivamente alleati della setta dominante, la persecuzione dei nuovi gruppi religiosi “non costituisce una limitazione della libertà di pensiero ma una protezione della libertà di coscienza, aggredita dal lavaggio del cervello portato avanti dai nuovi culti, i quali, inoltre, attentano ai valori tradizionali, alla cultura e al modo di vivere civile”. Così politici estranei al tema religioso finiscono per prendere parte all’orgia della caccia alle streghe perché, tra le altre cose, si rendono conto che le nuove espressioni di fede a carattere rivoluzionario tendono a conseguire una grande popolarità tra le masse. Tali politici non potranno dire, come nel XIX secolo, che “la religione è l’oppio dei popoli”, non potranno parlare di moltitudini e di individui isolati e addormentati, quando le masse musulmane proclamano l’instaurazione della repubblica islamica, quando in Giappone il buddismo (dopo il collasso della religione nazionale scintoista alla fine della seconda guerra mondiale) utilizza il Komei-tò per conquistare il potere, quando in America Latina ed in Africa la chiesa cattolica tende a formare nuove correnti politiche dopo l’esaurimento dell’esperienza del socialcristianesimo e del terzomondismo. In ogni caso i filosofi atei dei tempi nuovi dovranno cambiare i termini e sostituire nei loro discorsi l’espressione “l’oppio dei popoli” con “l’anfetamina dei popoli”. I gruppi dirigenti dovranno prendere posizione sul tema della gioventù che sta assumendo le caratteristiche di “maggior gruppo a rischio”, visto che le si attribuiscono pericolose tendenze verso la droga, la violenza e l’incomunicabilità. Tali gruppi dirigenti, insistendo nell’ignorare le radici profonde di simili problemi, non sono in grado di dare ad essi risposte adeguate visto che tali risposte fanno perno sulla partecipazione politica, il culto tradizionale o le offerte di una civiltà decadente controllata dal Denaro. Nel contempo si incoraggia la distruzione psichica di tutta una generazione ed il sorgere di nuovi poteri economici che prosperano vigliaccamente sull’angoscia e sul senso d’abbandono psicologico di milioni di esseri umani. Oggi molti si domandano a cosa si debba la crescita della violenza tra i giovani, come se non fossero state le vecchie generazioni e quella attuale che detiene il potere a perfezionare i metodi di una violenza sistematica, approfittando persino dei progressi della scienza e della tecnologia per rendere più efficaci le loro manipolazioni. Alcuni mettono in evidenza un certo “autismo” giovanile; partendo da questa osservazione si potrebbe cercare di correlare l’allungamento della vita degli adulti con il maggiore tempo di preparazione richiesto ai giovani per superare la soglia d’attesa. Questa spiegazione è fondata ma è insufficiente al momento di intendere processi di più vasta portata. Ciò che si può osservare è che la dialettica generazionale, motore della storia, è rimasta provvisoriamente bloccata e questo ha determinato l’aprirsi un pericoloso abisso tra due mondi. A questo punto è opportuno ricordare che quando un certo pensatore, alcuni decenni addietro, lanciò l’allarme su tali tendenze che oggi si manifestano come problemi reali, i mandarini ed i loro formatori d’opinione riuscirono solo a stracciarsi le vesti accusando quel discorso di promuovere la guerra generazionale. A quei tempi una possente forza giovanile, che avrebbe dovuto esprimere l’apparizione di un fenomeno nuovo ma anche la continuazione creativa del processo storico, in varie parti del mondo fu deviata verso le esigenze tipiche degli anni ‘60 e spinta verso una forma di guerriglia senza sbocchi. Nuovi problemi sorgeranno se, come oggi succede, ci si ostina a credere che le nuove generazioni canalizzeranno la loro disperazione verso la discoteca e lo stadio di calcio, limitando le loro rivendicazioni alla maglietta ed al poster con su scritti slogan innocenti. Una tale situazione di asfissia determina condizioni catartiche irrazionali che potranno essere facilmente canalizzate dai fascisti e da personaggi autoritari e violenti di tutti i tipi. Non è seminando la sfiducia nei giovani o sospettando ogni bambino di essere un potenziale criminale che si ristabilirà il dialogo. D’altra parte nessuno mostra alcun entusiasmo a dare spazio alle nuove generazioni nei mezzi di comunicazione sociale, nessuno è disposto alla discussione pubblica su problemi di questo tipo, a meno che non si tratti di “giovani esemplari” che riproducono le tematiche dei politicanti nella musica rock o che si dedicano, con spirito da boy-scout, a ripulire i pinguini dal petrolio senza mettere in discussione il grande capitale riconoscendo in esso la causa del disastro ecologico! Temo fortemente che qualunque organizzazione genuinamente giovanile (lavorativa o studentesca, artistica o religiosa) verrà sospettata delle peggiori malvagità se non sarà patrocinata da un qualche sindacato, partito, fondazione o chiesa. Dopo tante manipolazioni continueremo a domandarci perché i giovani non facciano proprie le meravigliose proposte avanzate dal potere stabilito e continueremo a risponderci che lo studio, il lavoro e lo sport tengono occupati i futuri cittadini per bene. Stando così le cose, nessuno dovrebbe preoccuparsi per la mancanza di “responsabilità” da parte di gente tanto impegnata. Ma se la disoccupazione continuerà a crescere, se la recessione diventerà cronica, se il senso d’abbandono si diffonderà dovunque, vedremo in cosa si trasformerà la non partecipazione di oggi. Per diversi motivi (guerre, carestie, disoccupazione, stanchezza morale) la dialettica generazionale ha subito una destrutturazione e si è creato questo silenzio che dura da due lunghi decenni, questa quiete che ora, di tanto in tanto, viene interrotta da un grido o da un’azione straziante e senza futuro. Da quanto detto sin qui risulta chiaro che nessuno potrà dare un orientamento ragionevole ai processi di un mondo che si dissolve. Questa dissoluzione è tragica ma illumina anche la nascita di una nuova civiltà, la civiltà mondiale. Se le cose stanno così, deve disintegrarsi anche un certo tipo di mentalità collettiva ed emergere, parallelamente, un nuovo modo di prendere coscienza del mondo. Su questo punto, vorrei riportare qui quanto ho scritto nella prima lettera: “…sta nascendo una sensibilità che corrisponde ai tempi nuovi. Si tratta di una sensibilità che coglie il mondo come una globalità e quindi permette di comprendere come le difficoltà delle persone, a qualunque paese appartengano, finiscano per coinvolgere altre persone che possono trovarsi anche in luoghi molto distanti. Le comunicazioni, l’interscambio di beni ed il veloce spostamento di grandi contingenti umani da un punto all’altro del pianeta mostrano che si è in presenza di un processo sempre più spinto di mondializzazione. Stanno anche sorgendo nuovi criteri d’azione perché molti problemi vengono compresi nella loro globalità e perché coloro che desiderano un mondo migliore cominciano ad avvertire che otterranno dei risultati solo se dirigeranno i propri sforzi verso l’ambiente sul quale esercitano una certa influenza. A differenza di altre epoche piene di frasi vuote con cui si cercava il riconoscimento degli altri, oggi si comincia a valorizzare il lavoro umile e sentito attraverso il quale non si pretende di esaltare la propria figura ma di cambiare se stessi e di facilitare il cambiamento del proprio ambiente familiare, lavorativo o relazionale. Quanti amano realmente la gente non disprezzano questo compito senza fanfare, cosa che risulta invece incomprensibile a tutti gli opportunisti formatisi nel vecchio paesaggio dei leader e delle masse, paesaggio in cui hanno imparato a utilizzare gli altri per essere catapultati verso i vertici sociali. Quando qualcuno si rende conto che l’individualismo schizofrenico non ha alcuna via d’uscita e comunica apertamente a quanti conosce ciò che pensa e ciò che fa senza il ridicolo timore di non essere capito; quando si avvicina agli altri; quando si interessa di ciascuno e non di una massa anonima; quando promuove lo scambio di idee e la realizzazione di lavori d’insieme; quando mostra chiaramente la necessità di moltiplicare gli sforzi per ridare connessione ad un tessuto sociale distrutto da altri; quando sente che anche la persona più “insignificante” è per qualità umana superiore a qualsiasi individuo senz’anima posto al vertice della congiuntura epocale… Quando succede tutto questo, è perché all’interno di quella persona inizia di nuovo a parlare il Destino che ha spinto i popoli a muoversi nel cammino dell’evoluzione; il Destino tante volte distorto e tante volte dimenticato, ma sempre ritrovato nelle svolte della storia! E non si intravede solo una nuova sensibilità e un nuovo modo di agire ma anche un nuovo atteggiamento morale ed una nuova disposizione tattica nei confronti della vita”. Oggi, in tutto il mondo, centinaia di migliaia di persone aderiscono alle idee espresse dal Documento Umanista. Ci sono i comunisti-umanisti, i socialisti-umanisti, gli ecologisti-umanisti, che senza rinunciare alla loro bandiera, avanzano verso il futuro. Ci sono quelli che lottano per la pace, per i diritti umani e per la non discriminazione. Naturalmente ci sono sia gli atei sia coloro che hanno fede nell’essere umano e nella trascendenza. Tutti hanno in comune la passione per la giustizia sociale, un ideale di fratellanza umana fondato sulla convergenza delle diversità, una disposizione a saltare al di là di ogni pregiudizio, una personalità coerente che non separa la vita personale dalla lotta per un mondo nuovo.

3. L’azione puntuale

Ci sono ancora militanti politici che si preoccupano di chi diventerà primo ministro, chi presidente, chi senatore o deputato. Probabilmente tali persone non comprendono verso quale livello di destrutturazione stiamo andando e quanto poco significato abbiano le suddette “gerarchie” in rapporto alla trasformazione sociale in atto. In più di un caso, per la verità, tale inquietudine risulterà legata alla situazione personale di certi presunti militanti preoccupati della loro quotazione sul mercato politico. La domanda che bisogna porsi è come collocare in una corretta scala di priorità i conflitti che sorgono nei luoghi in cui si svolge la nostra vita quotidiana e come organizzare fronti d’azione adeguati in base a tali conflitti. In ogni caso deve risultare chiaro quali sono le caratteristiche che devono avere le commissioni sindacali e studentesche di base, i centri di comunicazione diretta e le reti di comitati di vicini; cosa si deve fare per far crescere la partecipazione in tutte le organizzazioni, anche minime, in cui si esprime il lavoro, la cultura, lo sport e la religiosità popolare. E qui conviene chiarire che quando ci riferiamo all’ambiente più vicino delle persone, ambiente formato da colleghi di lavoro, da parenti e da amici, dobbiamo specificamente menzionare i luoghi in cui tali relazioni si sviluppano. Parlando in termini spaziali, l’unità minima d’azione è il vicinato, che è il luogo in cui qualsiasi conflitto viene percepito, e questo anche quando le radici del conflitto si trovino in luoghi molto lontani. Un centro di comunicazione diretta è un punto del vicinato nel quale si deve discutere qualunque problema economico e sociale, qualunque problema relativo alla sanità, all’istruzione e alla qualità della vita. Da un punto di vista politico, ci si deve preoccupare di dare al vicinato priorità rispetto al comune, alla provincia, alla regione autonoma o al paese. In realtà, molto prima che si formassero i paesi esistevano le persone, riunite in gruppi che, radicandosi in un luogo, hanno dato origine al vicinato. A queste persone, in seguito, sono stati sottratti autonomia e potere a misura che si sono create le sovrastrutture amministrative. Dagli abitanti, dai vicini, deriva la legittimità di un dato ordine sociale e da essi deve sorgere la rappresentatività in una democrazia reale. Il comune deve stare nelle mani delle unità di vicinato; da questo deriva che non ci si può proporre come obiettivo politico l’elezione di deputati e rappresentanti a diversi livelli, come succede nella politica verticistica: tale elezione deve essere invece conseguenza del lavoro della base sociale organizzata. Il concetto di “unità di vicinato” vale sia per una popolazione diffusa sul territorio sia per una popolazione concentrata in quartieri di case unifamiliari o di palazzi. Il coordinamento delle varie unità di vicinato deve decidere la situazione di un dato comune, non può essere al contrario: tale comune non può dipendere, per le sue decisioni, da una sovrastruttura che gli invia ordini. Quando le unità di vicinato metteranno in atto un piano umanista municipale e quando un municipio o comune darà vita alla propria democrazia reale, l’“effetto dimostrativo” si farà sentire molto al di là dei limiti di quella roccaforte umanista. Non si tratta di proporre una politica gradualista che guadagni terreno a poco a poco fino ad arrivare in tutti gli angoli di un paese ma di mostrare nella pratica che in un determinato luogo sta funzionando un nuovo sistema. I problemi che si presentano se da questo discorso generale si scende nei dettagli sono numerosi ma risulterebbe impossibile affrontarli in questa sede. Ricevete, con quest’ultima lettera, un caloroso saluto.

15 Dicembre 1993