texts

Lettere ai miei amici - 7

SETTIMA LETTERA AI MIEI AMICI

Cari amici,

Oggi parleremo della rivoluzione sociale. Ma com’è possibile? Alcuni benpensanti ci dicono che la parola “rivoluzione” è caduta in disuso dopo il fallimento del “socialismo reale”. Forse nelle loro teste c’è sempre stata l’idea che le rivoluzioni precedenti al 1917 fossero una sorta di preparazione alla rivoluzione “sul serio”. E` chiaro che, se è fallita la rivoluzione “sul serio”, non si può più tornare sull’argomento. Come al solito i benpensanti esercitano la censura ideologica e si attribuiscono la prerogativa di concedere o meno il certificato di cittadinanza alle mode e alle parole. Questi funzionari dello spirito (o meglio, dei mezzi d’informazione) continuano a vedere le cose in modo molto diverso da noi: un tempo pensavano che il monolitismo sovietico fosse qualcosa di eterno ed oggi che il trionfo del capitalismo sia una realtà immutabile. Davano per scontato che la sostanza di una rivoluzione fosse lo spargimento di sangue, che le bandiere al vento, le marce, i grandi gesti ed i discorsi infuocati ne costituissero la scenografia imprescindibile. Nel loro paesaggio di formazione hanno sempre agito il cinema e la moda alla Pierre Cardin. Oggi, per esempio, quando pensano all’islam immaginano una moda femminile che li inquieta e quando parlano del Giappone si alterano, oltre che per la questione economica, anche per il kimono che è lì, sempre pronto ad essere riesumato. Se quando erano bambini si nutrivano di celluloide e di libri di pirati, da grandi si sono sentiti attratti da Katmandù, dal tour delle isole, dalla difesa ecologica e dalla moda “naturale”; se invece assaporavano i western ed i film d’azione, da grandi hanno immaginato il progresso in termini di competizione guerresca e la rivoluzione in termini di polvere da sparo. Siamo immersi in un mondo di codici di comunicazione di massa nel quale i formatori d’opinione ci impongono i loro messaggi attraverso quotidiani, riviste e radio, i filosofi del “pensiero debole” stabiliscono i temi che devono essere discussi, le persone sensate ci informano e ci illuminano sul mondo attuale… Davanti alle telecamere si presenta quotidianamente la corporazione degli opinionisti. Lì, in buon ordine, si passano la parola la psicologa, il sociologo, il politologo, lo stilista, la giornalista che ha intervistato Gheddafi, l’ineffabile astrologo. Poi tutti gridano contro l’unico diverso: “Rivoluzione? lei è completamente démodé!” In definitiva, l’opinione pubblica (vale a dire, quella che si pubblica) sostiene che tutto va per il meglio malgrado qualche inconveniente e certifica, per di più, la morte della rivoluzione. Ci hanno forse presentato un insieme di idee ben articolate, in grado di squalificare il processo rivoluzionario nel mondo d’oggi? Hanno presentato solo opinioni da operetta. Non ci sono, pertanto, concezioni consistenti che meritino di essere discusse con rigore. Passiamo dunque alle questioni importanti.

1. Caos distruttivo o rivoluzione

In questa serie di lettere abbiamo variamente commentato la situazione generale in cui ci troviamo a vivere. Come conseguenza delle descrizioni che ne abbiamo dato, siamo giunti alla seguente alternativa: o ci lasciamo trascinare dal corso degli avvenimenti che è tendenzialmente sempre più assurdo e distruttivo o diamo agli avvenimenti stessi un senso diverso. Sullo sfondo di questo enunciato opera la dialettica tra libertà e determinismo; tra la ricerca umana della scelta e dell’impegno, ed i processi meccanici il cui destino è disumanizzante. Disumanizzante è il processo di concentrazione del grande capitale che porterà ad un collasso di dimensioni mondiali. Disumanizzante sarà il mondo che uscirà da questo collasso, un mondo sconvolto da fame, migrazioni, guerre e lotte interminabili, insicurezza quotidiana, arbitrio generalizzato, caos, ingiustizia, restrizione della libertà e vittoria di nuovi oscurantismi. Disumanizzante sarà tornare a girare in tondo fino al sorgere di un’altra civiltà che ripeterà meccanicamente gli stessi stupidi passi… ammesso che una tal cosa possa ancora essere possibile dopo il crollo di questa prima civiltà planetaria che proprio ora inizia a formarsi. Ma in questa lunga storia, la vita delle generazioni e degli individui è così breve e così presa da fatti che direttamente la coinvolgono, che ciascuno considera il destino generale come suo destino particolare ampliato e non considera invece il suo destino particolare come destino generale ristretto. Pertanto, ciò che a ciascuna persona succede di vivere oggi risulta molto più convincente di quello che a lui od ai suoi figli succederà di vivere domani. Ed in effetti le necessità di milioni di esseri umani sono così pressanti che non rimane spazio per prendere in considerazione l’avvento di un ipotetico futuro. Troppe tragedie si stanno svolgendo in questo preciso istante e ciò è più che sufficiente per spingerci a lottare in vista di un radicale cambiamento di situazione. Perché, allora, parliamo del domani se le necessità di oggi sono tanto impellenti? Semplicemente perché si manipola sempre di più l’immagine del futuro e si esorta a sopportare la situazione presente come se si trattasse di una crisi insignificante e vivibile. “Ogni aggiustamento economico - teorizzano - ha un costo sociale”. “E` deplorevole - dicono - che per far sì che in futuro tutti stiano bene, voi dobbiate vivere male il vostro presente”. “Ma ci sono mai stati prima - chiedono - la tecnologia e la medicina che ci sono ora nei paesi dove il benessere è maggiore?” “Arriverà - affermano - anche il vostro turno!”. E mentre ci rimandano a chissà quando, quegli stessi che hanno promesso progresso per tutti continuano ad allargare il fosso che separa una minoranza opulenta da una maggioranza sempre più castigata. Questo ordine sociale ci chiude dentro un circolo vizioso che si retro-alimenta e che tende alla creazione di un sistema globale al quale non potrà sfuggire alcun punto del pianeta. Ma è anche evidente che dappertutto si comincia a non credere più alle promesse dei vertici sociali, che le posizioni diventano sempre più radicali e che si profila una situazione di generale agitazione. Lotteremo tutti contro tutti? Culture combatteranno contro altre culture, continenti contro altri continenti, regioni contro altre regioni, etnie contro altre etnie, vicini contro altri vicini e familiari contro altri familiari? Andremo verso uno spontaneismo senza direzione, come animali feriti che gridano il loro dolore, o includeremo tutte le differenze - che siano le benvenute - nella direzione della rivoluzione mondiale? L’idea a cui sto cercando di dar forma è che si sta presentando l’alternativa tra il puro e semplice caos distruttivo e la rivoluzione intesa come direzione che supera le differenze tra gli oppressi. Sto dicendo che la situazione mondiale e quella particolare di ciascun individuo saranno sempre più conflittuali e che è un suicidio lasciare il futuro in mano a quegli stessi che hanno guidato questo processo fino ad oggi. Non siamo più al tempo in cui si potevano spazzare via tutte le opposizioni ed il giorno dopo proclamare: “La pace regna a Varsavia.” E non siamo più al tempo in cui il 10% della popolazione poteva decidere, senza limitazioni, per il restante 90%. In quello che sta diventando un sistema chiuso a livello mondiale, e senza che esista una chiara direzione di cambiamento, tutto dipende dalla pura e semplice accumulazione del capitale e del potere. Il risultato è che in un sistema chiuso non ci si può attendere altro che la meccanica che porta al disordine generale. Un tale sistema presenta infatti questo paradosso: se si cerca di mettere ordine al disordine crescente, il disordine tenderà ad aumentare. Non c’è altra via d’uscita che rivoluzionare il sistema, aprendolo alle diverse necessità e aspirazioni umane. Posto in questi termini, il tema della rivoluzione acquista una grandezza inusitata ed una forza che non poteva avere nelle epoche precedenti.

2. Di quale rivoluzione parliamo?

Nella lettera precedente abbiamo preso posizione sulle questioni riguardanti la contrapposizione tra lavoro e grande capitale; tra democrazia reale e democrazia formale; tra decentralizzazione e centralizzazione; tra anti-discriminazione e discriminazione; tra libertà ed oppressione. Se al giorno d’oggi il capitale si va gradualmente trasferendo alla banca, se la banca si va impossessando delle imprese, dei paesi, delle regioni e del mondo, la rivoluzione implica l’appropriarsi della banca per far sì che questa compia la funzione di prestare un servizio senza percepire in cambio interessi che, di per sé, significano usura. Se le aziende sono organizzate in modo tale che il capitale percepisce i guadagni ed il lavoratore il salario, e se nelle aziende la gestione e le decisioni sono in mano al capitale, la rivoluzione implica che il guadagno venga reinvestito, diversificato od utilizzato per la formazione di nuove fonti di lavoro e che la gestione e le decisioni siano condivise da lavoro e capitale. Se le regioni o le provincie di un paese sono subordinate alle decisioni del centro, la rivoluzione implica la destrutturazione del potere centrale per far sì che le entità regionali formino una repubblica federativa e che, parimenti, il potere di queste regioni venga decentralizzato a favore della base comunale, dalla quale deriverà tutta la rappresentatività elettorale. Se l’accesso alla sanità ed all’istruzione non avviene su basi paritarie per tutti gli abitanti di un paese, la rivoluzione implica che istruzione e sanità siano gratuite per tutti, perché in definitiva sono questi i due valori massimi della rivoluzione, valori che dovranno sostituire il paradigma della società attuale, centrato su ricchezza e potere. Se tutto è subordinato alla sanità ed all’istruzione, i complessissimi problemi economici e tecnologici della società attuale troveranno l’inquadramento corretto che permetterà di affrontarli adeguatamente. Ci sembra che procedendo al contrario non si arriverà mai a costituire una società dotata di possibilità evolutive. Il grande argomento del capitalismo è mettere tutto in dubbio, domandando sempre da dove verranno le risorse e come aumenterà la produttività, lasciando intendere che le risorse vengono dai prestiti bancari e non dal lavoro del popolo. Ma in fin dei conti a che serve la produttività se poi sfugge dalle mani di chi produce? Il modello che ha funzionato per alcuni decenni in alcune parti del mondo e che oggi comincia a disarticolarsi non ci sembra niente di straordinario. Il grande miglioramento della sanità e dell’istruzione nei paesi che seguono quel modello dovrà essere considerato alla luce della crescita di piaghe non solo fisiche ma anche psico-sociali. Se rientra nell’istruzione la creazione di un essere umano autoritario, violento e xenofobo; se fa parte del suo progresso sanitario l’aumento dell’alcolismo, delle tossicodipendenze e dei suicidi, allora quel modello non vale niente. Certo, continueremo ad ammirare i centri educativi ben organizzati, gli ospedali ben attrezzati e cercheremo anche di far sì che siano al servizio del popolo senza distinzioni. Quanto al contenuto ed al significato della sanità e dell’istruzione, c’è fin troppo da discutere con l’attuale sistema. Parliamo di una rivoluzione sociale che cambi drasticamente le condizioni di vita del popolo, di una rivoluzione politica che modifichi la struttura del potere e, in definitiva, di una rivoluzione umana che crei i propri paradigmi in sostituzione dei decadenti valori attuali. La rivoluzione sociale a cui mira l’Umanesimo passa attraverso la presa del potere politico per realizzare le trasformazioni necessarie ma la presa di tale potere non è un obiettivo in sé. Inoltre la violenza non è una componente essenziale di questa rivoluzione. A cosa serve la ripugnante pratica di giustiziare ed incarcerare il nemico? Se la seguissimo, in che senso saremmo diversi dagli oppressori di sempre? La rivoluzione dell’India anti-colonialista si è verificata per pressione popolare e non attraverso la violenza. E’ stata una rivoluzione incompiuta a causa della povertà delle sue idee ma ha pur sempre mostrato una nuova metodologia d’azione e di lotta. La rivoluzione contro la monarchia iraniana è scoppiata per pressione popolare e non ha comportato la presa dei centri del potere politico, giacché questi si sono “svuotati” fino a cessare di funzionare… poi l’intolleranza ha rovinato tutto. E quindi la rivoluzione è possibile con mezzi diversi, compresa la vittoria elettorale, ma la trasformazione drastica delle strutture deve essere messa in atto subito, cominciando dalla creazione di un nuovo ordine giuridico che, tra le altre cose, stabilisca chiaramente i nuovi rapporti sociali di produzione, impedisca qualunque arbitrarietà e regoli il funzionamento di quelle strutture appartenenti all’ordine passato che possono ancora essere migliorate. Le rivoluzioni che oggi agonizzano o quelle nuove che sono in gestazione non andranno oltre l’atto di testimonianza contro un ordine immobile, non andranno oltre il tumulto organizzato, se non avanzeranno nella direzione proposta dall’Umanesimo, cioè verso un sistema di rapporti sociali il cui valore centrale sia l’essere umano e non un qualsiasi altro valore, come la “produzione”, “la società socialista” ecc. Ma porre l’essere umano come valore centrale implica un’idea completamente diversa di ciò che oggi si intende, appunto, per “essere umano”. Gli schemi attuali di comprensione sono ancora molto lontani dall’idea e dalla sensibilità necessarie per cogliere la realtà dell’umano. Tuttavia, ed è necessario chiarirlo, comincia a delinearsi anche un certo recupero dell’intelligenza critica al di fuori dei cliché accettati dalla superficiale ingegnosità di quest’epoca. In G. Petrovich, per citare un caso, troviamo una concezione che anticipa ciò che abbiamo esposto. Egli definisce la rivoluzione come “la creazione di un modo di essere essenzialmente diverso, diverso da ogni modo di essere non umano, anti-umano e anche non completamente umano”. Petrovich conclude identificando la rivoluzione con la più alta forma di essere, con l’essere pienamente e con l’essere-in-libertà. (Tesi su “La necessità di un concetto di rivoluzione”, in La filosofia e le scienze sociali, Congresso di Morelia, 1975). La marea rivoluzionaria che sta montando e che è l’espressione della disperazione delle maggioranze oppresse non potrà essere fermata. Ma anche questo non sarà sufficiente, perché un tale processo non prenderà la direzione giusta grazie alla sola meccanica della “pratica sociale”. Passare dal campo della necessità a quello della libertà per mezzo della rivoluzione è l’imperativo di quest’epoca nella quale l’essere umano è rimasto immobilizzato. Le rivoluzioni future, se andranno oltre la rivolta militare, il colpo di Stato, le rivendicazioni di classe, di etnia o di religione, dovranno assumere il carattere di una trasformazione che tende ad includere e che si basa sull’essenzialità umana. Da ciò si deduce che al di là dei cambiamenti che esse produrranno nelle situazioni concrete dei diversi paesi, il loro carattere dovrà essere universalista e il loro obiettivo mondializzante. Di conseguenza, quando parliamo di “rivoluzione mondiale”, intendiamo dire che qualsiasi rivoluzione umanista, o che si trasformi in umanista, anche se si realizzerà in un ambito limitato, avrà un carattere ed un obiettivo che la porteranno oltre se stessa. E una tale rivoluzione, per insignificante che sia il luogo nel quale si verificherà, coinvolgerà l’essenza di ogni essere umano. La rivoluzione mondiale non può essere prospettata in termini di mero successo ma nella sua reale dimensione umanizzatrice. Inoltre il nuovo tipo di rivoluzionario che corrisponde a questo nuovo tipo di rivoluzione diviene, per essenza e per attività, un umanizzatore del mondo.

3. I fronti d’azione nel processo rivoluzionario

Vorrei soffermarmi ora su alcune considerazioni pratiche riguardanti la creazione delle condizioni necessarie a garantire l’unità, l’organizzazione e la crescita di un’adeguata forza sociale che consenta di muoversi nella direzione di un processo rivoluzionario. La vecchia tesi frontista secondo cui le forze progressiste devono unirsi sulla base di un accordo su un numero minimo di punti oggi dà luogo alla pratica del “collage” tra dissidenze prive di radicamento sociale. Ne risulta un accumularsi di contraddizioni tra i vertici che mirano al protagonismo sui giornali ed alla promozione elettorale. Al tempo in cui un partito dotato di risorse economiche adeguate poteva egemonizzare una situazione di frammentazione, la proposta di un “fronte” elettorale era plausibile. Oggi la situazione è cambiata radicalmente ma, nonostante ciò, la sinistra tradizionale continua ad utilizzare procedimenti di quel tipo come se nulla fosse accaduto. E’ necessario riconsiderare la funzione del partito in questo momento storico e domandarsi se sono i partiti politici le strutture capaci di mettere in moto la Rivoluzione. Perché se il sistema ha finito per metabolizzare i partiti trasformandoli nella “buccia” di un’attività politica che è in realtà controllata dai grandi capitali e dalla banca, un partito sovrastrutturale, privo di base umana, potrà anche avvicinarsi al potere formale (ma non al potere reale) senza per questo produrre la benché minima variazione di fondo. L’azione politica esige, per ora, la creazione di un partito che consegua rappresentatività elettorale a diversi livelli. Ma deve risultare chiaro sin dal principio che tale rappresentatività ha lo scopo di portare il conflitto in seno al potere stabilito. In questo contesto un membro del partito che sia stato eletto a rappresentante del popolo non è un funzionario pubblico ma un referente che mette in evidenza le contraddizioni del sistema ed organizza la lotta nella prospettiva della rivoluzione. In altre parole, il lavoro politico istituzionale o partitico è inteso qui come l’espressione di un vasto fenomeno sociale che possiede una dinamica propria. Pertanto anche nel periodo elettorale, in cui l’attività del partito raggiunge il suo picco massimo, i diversi fronti d’azione che servono occasionalmente da base al partito stesso, utilizzano la campagna elettorale per evidenziare i conflitti e per ampliare la propria struttura organizzativa. Qui appaiono differenze molto profonde con la concezione tradizionale del partito. In effetti fino a qualche decennio fa si pensava che il partito fosse l’avanguardia di lotta che organizzava i diversi fronti d’azione. Qui si propone l’idea opposta. Sono i fronti d’azione che organizzano e sviluppano la base di un movimento sociale mentre il partito è l’espressione istituzionale di tale movimento. Da parte sua il partito deve creare le condizioni che favoriscano l’inserimento di altre forze politiche progressiste, poiché non può pretendere che tali forze, includendosi nel suo seno, perdano la propria identità. Il partito deve andare al di là della propria identità formando con altre forze un “fronte” più ampio che riunisca tutti i fattori progressisti frammentati. Ma non si andrà oltre l’accordo di vertice se il partito non potrà contare su una base reale che dia orientamento ad un tale processo. D’altra parte, questa proposta non è reversibile, nel senso che il partito non può far parte di un fronte organizzato da altre sovrastrutture. Si creerà un fronte politico insieme ad altre forze se queste accetteranno le condizioni poste dal partito, la cui forza reale è data dall’organizzazione di base. Passiamo dunque ad esaminare i diversi fronti d’azione. Debbono esistere differenti fronti d’azione e questi debbono svolgere la loro attività nella base amministrativa di un paese avendo come obiettivo il Comune o municipio. Nell’area scelta bisogna sviluppare fronti d’azione nell’ambito lavorativo e in quello di residenza, impegnandosi ad agire sui conflitti reali adeguatamente ordinati secondo una scala di priorità. Questo significa che la lotta per una rivendicazione specifica non ha senso se non si trasforma in crescita organizzativa ed in un posizionamento in funzione dei successivi passi di lotta. È chiaro che ogni conflitto dovrà essere spiegato in termini tali che lo mettano direttamente in relazione con il livello di vita, la salute e l’istruzione della popolazione (coerentemente con questo, i lavoratori della sanità e dell’istruzione dovranno prima diventare dei simpatizzanti e quindi dei quadri che si dedicheranno direttamente all’organizzazione della base sociale). Se prendiamo in esame le organizzazioni sindacali, ci si presenterà lo stesso fenomeno osservato nei partiti del sistema; pertanto non sembra il caso di proporsi il controllo del sindacato; bisogna proporsi piuttosto l’aggregazione dei lavoratori che, in questo modo, finiranno per togliere ai vertici tradizionali il controllo del sindacato. Si deve favorire qualunque sistema di elezione diretta, qualunque riunione plenaria o qualunque assemblea che coinvolga la dirigenza ed esiga da essa una presa di posizione sui conflitti concreti, obbligandola a rispondere alle richieste della base o ad essere altrimenti scavalcata. E’ chiaro che i fronti d’azione in campo sindacale devono disegnare la propria tattica avendo come obiettivo la crescita dell’organizzazione della base sociale. Infine riveste estrema importanza la creazione di istituzioni sociali e culturali che operino nella base sociale, perché esse permettono di aggregare, nel contesto del rispetto dei diritti umani, collettività discriminate o perseguitate e di dar loro una direzione comune nonostante le reciproche differenze. Costituisce un grave errore di valutazione la tesi secondo cui ogni etnia, collettività o gruppo umano discriminato debba farsi forte in se stesso per contrastare i soprusi. Questa posizione parte dall’idea che il “mescolarsi” con elementi estranei faccia perdere identità a tali gruppi, quando in realtà è il loro isolamento a indebolirli e a facilitare il loro sradicamento, oppure a spingerli verso posizioni estremiste che i loro persecutori utilizzano per giustificare le loro aggressioni. La migliore garanzia di sopravvivenza per una minoranza discriminata sta nel far parte di un fronte comune con altri soggetti che diano alle sue rivendicazioni e alla sua lotta una direzione rivoluzionaria. In ultima analisi è il sistema considerato globalmente ad aver creato le condizioni per la discriminazione, condizioni che non scompariranno fino a quando questo ordine sociale non verrà trasformato.

4. Il processo rivoluzionario e la sua direzione

Dobbiamo distinguere tra processo rivoluzionario e direzione rivoluzionaria. Dal nostro punto di vista, il processo rivoluzionario va inteso come un insieme di condizioni meccaniche generate dallo sviluppo del sistema. Infatti tale sviluppo crea fattori di disordine che possono essere eliminati o al contrario acquistare una tale importanza da disarticolare il sistema nella sua globalità. Sulla base delle analisi che abbiamo portato avanti sin qui, la globalizzazione che è in marcia sta creando in questo momento acuti fattori di disordine all’interno del processo di sviluppo totale del sistema. Si tratta di un processo indipendente dall’azione intenzionale di gruppi o individui. Abbiamo già considerato questo punto in più di un’occasione. Il problema che stiamo ora ponendo sul tappeto è proprio quello del futuro del sistema, che tende a rivoluzionarsi meccanicamente senza seguire alcun orientamento che permetta un progresso. Un orientamento di questo tipo dipende dall’intenzione umana e sfugge alla determinazione delle condizioni generate dal sistema. Abbiamo chiarito in altri momenti la nostra posizione riguardo alla non passività della coscienza umana, alla caratteristica essenziale di questa di non essere semplice riflesso di condizioni oggettive, alla capacità che essa possiede di opporsi a tali condizioni e di prospettare una situazione futura differente da quella vissuta nel presente (qui suggeriamo di consultare la Quarta lettera, par. 3 e 4 e, nel volume Contributi al pensiero, il saggio Discussioni storiologiche, cap. III, par. 2 e 3). Interpretiamo la direzione rivoluzionaria in questo contesto di libertà tra condizioni. E’ con l’esercizio della violenza che una minoranza impone le proprie condizioni all’insieme sociale ed organizza un ordine, un sistema inerziale, che poi continua a svilupparsi. Da questo punto di vista, sia il modo di produzione che i rapporti sociali che ne derivano, sia l’ordine giuridico che le ideologie dominanti che regolano e giustificano tale ordine, sia l’apparato statale o para-statale attraverso il quale si controlla la totalità sociale si rivelano strumenti al servizio degli interessi e delle intenzioni della minoranza al potere. Ma lo sviluppo del sistema continua meccanicamente al di là delle intenzioni di questa minoranza che lotta per concentrare in sé sempre più fattori di potere e di controllo e che provoca, con questa lotta, una nuova accelerazione dello sviluppo del sistema, il quale finisce per sfuggire, poco a poco, al suo dominio. In questo modo l’aumento del disordine si scontrerà con l’ordine stabilito e farà sì che quest’ultimo risponda, mettendo in gioco le risorse di cui dispone per proteggersi, con un’intensità proporzionale all’attacco. In momenti critici la totalità sociale verrà disciplinata con tutto il rigore e la violenza su cui il sistema può fare assegnamento. Si giunge così alla maggiore risorsa disponibile: l’esercito. Ma è poi certo che gli eserciti continueranno a rispondere nel modo tradizionale in un periodo in cui il sistema va verso un collasso globale? Se la risposta fosse negativa, la nuova direzione che gli avvenimenti attuali potrebbero prendere diverrebbe argomento di discussione. Basta riflettere sugli ultimi stadi delle civiltà che hanno preceduto l’attuale per comprendere come gli eserciti si siano sollevati contro il potere stabilito, come si siano divisi durante le guerre civili che già allignavano in seno alla società e come il sistema, non potendo prendere una direzione nuova in tale situazione, abbia continuato la sua corsa verso la catastrofe. La civiltà mondiale che oggi si va profilando seguirà lo stesso destino? Nella prossima lettera rifletteremo sul tema degli eserciti. Ricevete, con questa lettera, un caloroso saluto.

7 Agosto 1993

Lettere ai miei amici - 8